«Non stimo opera vana rievocare sia pur pallidamente in queste pagine
la dolce figura di alcuni tra i religiosi che santificarono con la loro presenza questo nostro sacro Eremo,
imbalsamandolo col soave profumo di tante eroiche virtù.
Sono gemme fulgidissime di cui va santamente fiera la nostra famiglia carmelitana;
ed è tanto più giusto porle in luce, quanto più oggi, alla distanza di qualche secolo,
sembrano a noi nascoste e direi quasi sconosciute;
perché il tempo non può attenuare il dolce profumo dei Santi, e, una volta che si è aspirato,
si gustano tali soavi delizie che di rado è dato godere in altri modi».
Con queste “semplici” parole, padre Alberto Maria del SS. Sacramento (al secolo Emmanuele Podestà), introduceva la sua opera intitolata Medagliioni carmelitani del s. Deserto di Varazze. Il sottotilo riporta un verso dell’Inferno di Dante Alighieri: «…saper d’alcuno è buono» (XV, 103).
Si tratta infatti di una raccolta di biografie di alcune figure eminenti che hanno avuto a che fare con il nostro convento del Deserto di Varazze. Forse sarebbe meglio definirle “agiografie”, poichè l’intento dell’autore è dichiarato: mettere in luce le virtù dei religiosi per farcene respirare il profumo e spingerci a imitarli.
L’opera risale al 1928 e venne pubblicata a puntate sulla rivista Ite ad Joseph. Abbiamo deciso di renderla pubblica online (aggiornandola un po’ nel vocabolario, senza tuttavia travisarla) con un duplice scopo:
1. Far conoscere a tutti le personalità che «santificarono con la loro presenza questo nostro sacro Eremo, imbalsamandolo col soave profumo di tante eroiche virtù» per spronarci ad imitarle.
2. Non perdere la memoria di coloro che ci hanno preceduto nel cammino della fede, consci delle parole attribuite a Bernardo di Chartres: «Noi siamo come nani sulle spalle dei giganti, così che possiamo vedere un maggior numero di cose e più lontano di loro, tuttavia non per l’acutezza della vista o la possanza del corpo, ma perché sediamo più in alto e ci eleviamo proprio grazie alla grandezza dei giganti».
Non ci resta quindi che ringraziare il novizio fra Mattia, che ha trascritto con pazienza il testo e augurare a tutti buona lettura.
Fu uno dei primi dodici che gustarono al Deserto il fascino misterioso della solitudine e qui, rapiti nei pensieri contemplativi, respirarono con vera libertà quella pace sovrumana che il mondo ignora.
Oggi, come al loro tempo, non tutti gli uomini sanno apprezzarli come si conviene, presentandoceli a volte come esseri egoisti, perfettamente inutili alla società. Fortunatamente però non tutti la pensano allo stesso modo; del resto ad essere unilaterali nel proprio giudizio si dovrebbe in tal caso condannare per primo Gesù Cristo stesso, che a sua volta si ritirò in un deserto e che più tardi in casa di Maria esaltò l’amore contemplativo al di sopra di qualsiasi attività per quanto benefica.
Ma a sfatare qualunque conclusione precipitata sopraggiunge l’esperienza, la quale ci ammaestra che la contemplazione non è sterile, bensì feconda più di quanto non si pensi; e ci mostra come essa sia un lavoro utilissimo, perché, come ebbe a confessare lo stesso Victor Hugo, le mani giunte agiscono al pari di chi maneggia la spada o l’aratro. Un fervido credente ed eroe valoroso che ha saputo immolare la sua giovane vita per la patria, il Borsi, così si esprime nei suoi meravigliosi Colloqui:
«Ci si domanda come mai il mondo non è ancora finito e caduto in rovina dopo tanti inganni, tante colpe, tante lotte, tante miserie… Ma questo si deve all’opera ignorata, oscura, ma non meno potente e feconda dei contemplativi, di quelli che amano Dio, che pregano Dio, che supplicano Dio, che ne attingono bontà, amore, sapienza, forza, abnegazione. Guardate il mondo alla superficie. Come mai non è ancora caduto in dissoluzione? Perché c’è il sole della terra; perché ci sono quelli che piangono, soffrono e pregano».
Onore dunque a questi eroi nascosti!… La storia non registra le loro benemerenze, perché la solitudine non ha storia; ma tutti sanno che, se un Mosè sull’alto della montagna, con le braccia aperte, non avesse pregato per il popolo di Dio, Israele non avrebbe mai riportato sui suoi nemici quella strepitosa vittoria che noi tutti conosciamo. Ammiriamoli; perché, se anche non avessero recato alla nostra società alcun beneficio, ci hanno offerto lo spettacolo – e non è poca cosa – di essere tanto più a noi superiori, in quanto hanno saputo trionfare sul mondo rigettandone il commercio e i falsi piaceri, desiderosi non d’altro che di riconcentrarsi in sé stessi e di governare sovranamente le cose inferiori!

Bologna all’epoca della nascita di padre Germano di san Vincenzo
Ho tratteggiato così alla sfuggita i nostri grandi solitari, perché nei loro lineamenti io vedo proiettato l’umile carmelitano, Padre Germano di san Vincenzo, del quale la bella figura mi si affaccia alla mente maggiormente simpatica e cara.
Padre Germano fu bolognese di nascita e professo della Scala in Roma. Dopo aver dimorato un po’ di tempo nel nostro Deserto di Varazze, fu chiamato in qualità di Lettore nella provincia religiosa di Lombardia, dove fu anche più volte Priore ed infine, dal 1628 al ’31, quinto Provinciale. Di lui come prelato scrive egregiamente un suo confratello che gli fu anche figlio spirituale, definendolo «uomo di senno e di forte virtù»; elogio abbastanza eloquente nella sua stessa brevità.
Ma dove più rifulge la paterna figura di padre Germano è nella terribile pestilenza del 1630 che seminò in gran parte della nostra Italia, ma specialmente a Milano, non poca strage e desolazione. Si poté allora toccare con mano se l’eremo non cresce altro che degli egoisti, insensibili di cuore: e quali frutti preziosi può apportare anche la solitudine, là dove lo spirito si ingigantisce alla scuola del sacrificio, e la fiamma della carità, lontana da ogni soffio di arido vento, divampa sempre più vivida e pura. Non è forse vero del resto che le grandi opere maturano più velocemente nel silenzio?

Il Lazzaretto di Milano in un’immagine del 1630
Al centro si può notare la chiesa attorniata dalle tende degli appestati
Della peste di Milano ha scritto con penna impareggiabile il Manzoni, ma vi è una pagina d’oro riportataci in un Manoscritto di un Anonimo carmelitano del tempo, che con la descrizione di nuove scene commoventi e di eroismi ignorati colma non poche lacune del racconto manzoniano. Questa pagina d’oro l’hanno scritta i miei confratelli di Lombardia con il sacrificio generoso di sé stessi nell’esercizio della loro carità al Gentilino. Ma diamo la parola all’anonimo scrittore:
«Mentre purtroppo il male si andava dilatando e i morti di peste salivano a trenta e quaranta ogni giorno; mentre gli uomini saggi, dinanzi al progredire di tanta sventura, si andavano persuadendo che la peste ci fosse, il nostro padre provinciale, che era padre Germano di san Vincenzo, uomo di senno e di forte virtù, riunì la mattina del sabato santo, 30 marzo, nella sua cella tutti i Padri; ricordò loro come avessero l’obbligo di dare il sangue per la salute del prossimo, e, con accento accorato, ma vibrante di pietà infinita e di carità ardente, disse:
“Padri carissimi, a noi, infiammati dello spirito di Cristo, incombe gravissimo l’obbligo di sollevare gli infelici, anche con il sacrificio della nostra vita. La città di Milano è oppressa da un incubo, è travagliata da un morbo che non perdona: or chi non sa delle Reverenze Vostre quanto i Milanesi ci stimino e ci amino? Quanto sperino e confidino nelle nostre orazioni? Quanto ci sovvengano con le loro elemosine?…
Padri carissimi, suona per noi l’ora in cui la nostra gratitudine verso la città deve esplicarsi intera e generosa. La peste fa strage e, a renderla meno spaventosa e micidiale, necessita l’opera illuminata, coscienziosa, pia degli uomini che da Dio solo attendono premio e conforto. Infinite sono le miserie corporali, ma degne di pietà maggiore e di pronto sollievo sono le spirituali. Pensate voi alla condizione degli appestati buttati al Lazzaretto?
Io qui ho riunito oggi i Padri; li ho riuniti per ricordare loro, con parola paterna, il dovere che Dio ci impone, l’obbligo che ci lega a Milano sofferente; li ho riuniti per sapere quanti si offrono all’assistenza degli appestati, che nessuna parola di sacerdote consola.
Il Giappone, la Cina, la Persia, la folla sciagurata degli infedeli è lontana da noi; ma a due passi dal vostro convento muoiono, senza religiosi soccorsi, gli infetti dal morbo. Dio ci presenta il martirio: beati quelli che l’accetteranno!
Io, per me, non voglio privarmi della corona che Dio ci prepara nel cielo; per primo faccio offerta di me stesso, e la farei anche se avessi la dolorosa certezza di non essere ascoltato e seguito da nessuno. Iddio ci invita tutti, e sarebbe colpa grave per i Padri Scalzi l’essere sordi o incerti alla chiamata del Signore; essi farebbero grave torto alla santa Madre Teresa, che tanto zelo ebbe per la salute del prossimo, grave onta alla Religione e danno forte a sé stessi*.
Vorrei dunque che ognuno mi aprisse schiettamente l’animo, perché io possa offrire ai Signori della Sanità l’opera nostra, che sarà in tutto soggetta ai gravi bisogni della città”.
* La carità eroica dei Figli del Carmelo per gli appestati fu sempre sacra tradizione del loro Ordine. Quando la peste venne a mietere la Francia, i religiosi carmelitani si prestarono ovunque con grado eminente di carità. Negli anni 1628, 1630, 1633, 1638 a Lione, a Tolosa, a Bordeaux, ad Avignone molti Carmelitani morirono servendo gli appestati. Ad Avignone padre Giuseppe di Gesù Maria, chiamato il Santo, fu il vero padre lombardo Felice Casati. La città aveva affidato a lui il governo spirituale e temporale di tutti i poveri ammalati. Nel mese di giugno 1631, raddoppiando la peste le sue vittime, padre Giuseppe indusse i consoli a far voto a san Giuseppe di astenersi ogni anno dal lavoro nel giorno della sua festa e di assistere ad una processione comandata in suo onore. Fatta la promessa, cessò l’epidemia. In Italia, non solo a Milano, ma anche a Pavia e molte altre città i Carmelitani Scalzi si sacrificarono per servire gli appestati. Anche Genova fu testimone del loro sublime eroismo, e ben quattordici ne vide morire martiri di carità a favore degli infelici colpiti dal terribile flagello!

Il Lazzaretto in una foto del 1880 circa
Ho voluto riportare per intero il commovente discorso del caritatevole Provinciale per farne gustare al lettore tutta la freschezza e la soave fragranza. È anzitutto l’uomo, nei palpiti del suo cuore infiammato d’amore…».
Del resto i sentimenti del nostro buon padre non erano che quelli dei suoi figli; per cui è superfluo pur solo accennare come siano stati silenziosi e commossi; nel loro sguardo era una pietà profonda per i sofferenti e l’infinita riconoscenza per il Signore che li chiamava a compiere l’opera della misericordia. La stessa sera unanimi, senza eccezione, si votavano generosamente al sacrificio; ed il loro nobile gesto ebbe subito altri imitatori, perché gli stessi chierici studenti, i fratelli laici e perfino i giovani novizi, non appena ne ebbero sentore, con altrettanto entusiasmo accorsero ai piedi del Provinciale per fargli offerta incondizionata di sé. Padre Germano, commosso dinanzi a tanto slancio, non indugiò oltre a portarsi dal presidente del Tribunale di sanità per offrirgli i suoi servizi e quelli dei suoi frati. Fu anche dal Cardinal Arcivescovo Federico Borromeo, degno cugino e successore al grande san Carlo, il quale lo accolse con paterno affetto e benedisse di cuore i generosi figli di santa Teresa, emuli dell’ardente carità della loro serafica Madre. Inutile dire che l’offerta fu accolta da ogni parte con trasporto.
Spuntava l’alba dell’otto giugno 1630, e un umile drappello di Carmelitani Scalzi, biancovestiti, usciva dal dolce nido del convento per avviarsi a Porta Ticinese dove era il lazzaretto destinato alle loro cure, il Gentilino. Il padre Provinciale lo accompagnava con il cuore sanguinante. Come un nuovo Abramo vedeva i suoi figli pronti all’immolazione, e, se desiderava egli stesso condurre le nobili vittime all’altare del sacrificio cui li aveva spronati, non poteva tuttavia non piangerne, presago di non poterli più riabbracciare. Oh! Come volentieri sarebbe volato con essi al servizio degli infelici appestati, se l’Arcivescovo, per un senso di delicato riguardo, non gli avesse tarpato le ali rimandandolo alle cure del convento!!… Ed ora i suoi figli andavano soli… soli alla morte!…
Non potendo fare altro, il buon Provinciale si accontentò di largheggiare con i prescelti di utili norme, ammaestrandoli nelle cautele da usarsi nell’esercizio del difficile ministero e i salutari riguardi che ciascuno doveva al proprio corpo per non infiacchirlo maggiormente, pur essendo ognuno ansioso di conservare inalterata insieme allo spirito religioso la bella fiamma della carità che li aveva spinti al soccorso dei fratelli languenti. Il Signore volle che l’opera disinteressata dei Carmelitani al Gentilino tornasse di qualche lenimento al cuore affranto del buon padre. E furono veri eroi i suoi figli!… Pieni di sollecitudine più che materna seppero lì operare tali prodigi di carità da essere unanimemente riguardati come altrettanti angeli scesi dal cielo a lenire le sventure umane. Ben presto però il sacrificio era compiuto, e ad uno ad uno si videro cadere sulla breccia tra le lacrime di molti beneficati. Il Provinciale, pur tanto costernato, non volle lasciare senza gli angeli del conforto l’asilo del dolore; e subito, a sostituire i caduti, mandò altri volenterosi che anelavano non meno dei primi alla corona dei martiri. Quando il flagello finalmente cessò, due soli erano i superstiti del lazzaretto. Ma quanti eroi sconosciuti, anche fuori di Milano, come ad Inzago e Pavia; quanti perfino tra le mura dello stesso convento!… Che pagina gloriosa per il Carmelo!

Il cardinale Federico Borromeo in una stampa d’epoca
Sfuggitagli pertanto a Milano la tanto sospirata palma dei martiri, Padre Germano non tardò a scorgere dinanzi a sé una nuova palestra aperta alla sua ardente carità.
Nel Capitolo del 1631 era stato eletto quarto definitore Generale, per cui avrebbe dovuto trasferirsi a Roma; e, poiché la città dei Cesari gemeva percossa dalla peste che anche là mieteva vittime senza numero, credette giunto il momento di cogliere la corona tanto attesa. Seguendo gli impulsi generosi del suo cuore, affrettò i passi verso quella nuova dimora, divenuta ormai la città della morte; e già la sua anima ardente sognava languenti e moribondi che da lui invocavano soccorsi, parole di conforto, la pace del Signore.
Ma quel Dio che si compiace spesso dei buoni desideri dei suoi figli, permise che fosse a lui chiuso l’accesso alla desolata città. Chi può mai immaginare il suo profondo rammarico?… Come deve aver pianto al vedersi ancora una volta contesa la palma… Ma no!… C’è ancora una palma che Iddio tiene riservata a chi anela al sacrificio di sé!… E questa palma è del nostro carmelitano!…
Quando nel 1648, dopo aver retto per qualche tempo in via provvisoria, come Vicario Generale, la famiglia del Carmelo (della quale era stato anche Visitatore Generale) padre Germano pieno di meriti moriva santamente a Venezia, dove aveva promosso la fondazione di un nuovo convento, sulla sua tomba fu scritto a caratteri di luce: «Qui giace un cuore d’apostolo che conobbe le umane sventure e in una lugubre notte di dolore sospirò il martirio per i propri fratelli. Gloria all’eroe sconosciuto, al martire di desiderio!…». Ma questo elogio devono averlo scritto fulgido gli Angeli in cielo!…
