In questa quinta domenica di Pasqua, ritorniano indietro di qualche settimana, precisamente alla sera della Pasqua, quando Gesù entra nel luogo in cui si trovavano i discepoli, e a otto giorni dopo, quando Gesù si manifesta anche a Tommaso. Ritorniamo su questo brano per sostarvi con il metodo della Lectio divina, proposta dal carmelitano calzato Bruno Secondin, con lo scopo di leggerlo, capirlo sempre meglio, meditarlo e assimilarlo per tradurlo in vita concreta.
Questo testo da molti è ritenuto la vera conclusione del Vangelo di Giovanni, soprattutto a motivo del richiamo ai «segni» (v. 30), che è il filo conduttore di tutto il vangelo di questo testimone. Il circolo dei discepoli di Giovanni avrebbe aggiunto il capitolo 21, sulle apparizioni in Galilea, con lo scopo di allungare ancora il richiamo ai «segni» e alla loro finalità specifica di condurre verso la «fede in Gesù Signore» e Salvatore. Se è così, tutto è scritto perché attraverso i segni, «crediamo» che Gesù è il Figlio di Dio e il nostro Salvatore.
Una suddivisione: ci sono chiaramente tre parti che possiamo rilevare: vv. 19-23: l’apparizione ai discepoli in luogo chiuso; vv. 24-29: diffidenza di Tommaso e poi la nuova apparizione e il dialogo fra Gesù e Tommaso; vv. 30-31: affermazione conclusiva sui «molti altri segni» e la finalità di quanto è stato scritto. All’interno di queste tre parti, si possono notare altre possibili suddivisioni, o elementi di rilievo: per esempio il movimento della gioia iniziale si può separare dal dono dello Spirito; la reazione scettica di Tommaso si può distinguere dalla sua adesione di slancio quando il Signore riappare e dalla considerazione di Gesù.
Qualche espressione più importante andrebbe citata, perché tipica di questo brano: la pace: eirène (shalom in ebraico), presente per ben tre volte (vv. 19.21.26); il corpo piagato del Signore a cui si fa riferimento più volte (vv. 20.25.27), con una ripetizione un po’ pesante; le porte chiuse («sbarrate», vv. 19 e 26), segnalano forse la paura, ma anche che dove la comunità e riunita, là lui è in mezzo, e niente può impedirlo. Il richiamo al giorno dopo il sabato, e otto giorni dopo (vv. 19.26), è chiara allusione al dies Domini, il giorno del Signore, che all’epoca della composizione del testo era ormai un’abitudine. Infine il richiamo ai segni (v.30: sèmeia in greco) ha molta importanza in Giovanni, che costruisce appunto il Vangelo su sette segni, più il grande «segno» finale della umiliazione/glorificazione.
Una giornata piena: colui che era morto ora è vivente e e presente, riempie l’intera giornata dall’aurora alla notte fonda. Per Giovanni tutto avviene – per le prime apparizioni – dal buio del mattino al buio della notte. In queste dodici-quindici ore si passa dall’ansia della Maddalena, che non sa aspettare le luci dell’alba (Gv 20,1), alla corsa di Giovanni e Pietro al sepolcro (Gv 20,4). E di nuovo all’apparizione a Maddalena nel giardino (Gv 20,14-15), alla riunione impaurita a porte chiuse (v. 19), e alla gioia dei discepoli nel «vedere il Signore» (v. 20).
In questa giornata sola un accumulo di esperienze, di paure e messaggi, di confidenze. Il Risorto appare con due aspetti evidenti: la sua corporeità piagata, reale, non immaginaria; e quel corpo ora è qui, risorto, vittorioso, vivente. Nell’accumulare tante esperienze estreme in poche ore, forse Giovanni vuole anche segnalare che c’è una pressione psicologica e spirituale sui discepoli, da parte di Gesù: perché superino la vergogna e la paura, e si lascino convincere di una nuova storia che stanno per vivere e di cui devono essere testimoni convinti e coraggiosi.
Ridare fiducia e unità al gruppo: la prima parola che Gesù dice è «pace!» (v. 19). E la ripete. Non una parola di rimprovero, non lunghe spiegazioni: ma «pace a voi!». La sua vittoria sulla morte è proprio dono di pace, di gioia, di liberazione dalla paura. Il loro «vedere» non è solo degli occhi, è molto più profondo: «vedono il Signore» (v. 20). Le apparizioni del Risorto hanno la funzione di ridare fiducia e unità alla comunità dei discepoli: una fiducia, non a prescindere dallo shock dell’umiliazione e morte del Maestro, ma includendo proprio la constatazione che il Maestro è vivente e vittorioso, proprio con le piaghe visibili dell’umiliazione.
Questa insistenza sul corpo piagato, questo mostrarsi e invitare e verificare, deve fugare ogni dubbio che sia un fantasma, un’allucinazione che allevia il loro dolore e la loro delusione. E allo stesso tempo è una provocazione a ricomprendere il percorso umano e storico di Gesù in una luce nuova, come sergente di salvezza e di vita, come gloria e svelamento. Questo «svelamento» della comunità attorno a una verità che non possono inventarsi, ma solo devono ricevere. E sulla quale poi meditare per penetrare il significato dirompente, e trovare i vocaboli adeguati per rilanciarla nella evangelizzazione.
Lo Spirito donato per la missione della comunità. Per Giovanni lo Spirito è principio di vita nuova, è la forza misteriosa che ha guidato la vita di Gesù. Per questo lo vede effuso sul mondo nel momento della morte di Gesù: «consegnò lo Spirito» (Gv 19,30). La vita nuova e la nuova capacità di fare unità e comunione fra loro e con il Gesù vivente, viene dallo Spirito: nella sua presenza e nelle sue ispirazioni la comunità continuerà a creare solidarietà, speranza, unità, riconciliazione.
È evidente che la comunità «integra», incorpora la persona nella comunione solo se in lei lo Spirito è protagonista; se invece non la «integra», vuol dire che non riconosce in lei un nuovo modo di vivere, né lo Spirito in azione che rinnova. Il termine «peccato» non va qui inteso in come colpa isolata, m come sbaglio palese: ma piuttosto come complicità volontaria con il male, il sistema ingiusto, che porta morte e spegne la speranza. Perciò il riconoscimento (liberare/legare) dell’implicazione nel male o della lontananza da esso, va inteso come grazia che lo Spirito opera e che quindi la comunità riconosce e accetta, al suo servizio, per il bene di tutti.
Tommaso incredulo e credente: Tommaso appare anche in altre circostanze (ad esempio Gv 11,16; 14,5) e sembra che il tipo che agisce di slancio, senza troppe precauzioni. Non si sa perché fosse assente, si vede che non accetta la testimonianza della comunità: e resiste una settimana intera nel suo scetticismo testardo. La gioia degli altri non gli basta, crede solo a quello che verifica lui con le sue stesse mani. Possiamo immaginare anche una certa irritazione da parte degli altri che si sentono considerati «visionari». Quando viene, Gesù stesso invita Tommaso a fare la verifica, e proprio insiste sulla presenza delle piaghe sul suo corpo.
Tommaso è sconvolto dal modo di fare di Gesù, ma è anche il vero testimone di quello che significa credere nella risurrezione. Grazie alla sua cocciutaggine e al suo scetticismo, abbiamo sia la ripetizione della veridicità del corpo piagato, eppure vivente e vittorioso; sia una bellissima esclamazione di fede da parte di Tommaso. Egli infatti esclama: «Mio Signore e mio Dio!». Ma per tutta risposta Gesù lo invita a guardare più in là, a diventare fratello con tutti coloro che fanno fatica a credere, ma che si fidano dei testimoni, e non cercano egoisticamente prove personali.
- Quando la paura blocca tutto: avevano anche sprangato le porte. Forse ancor più forte era il disagio interiore: avevano abbandonato il Maestro nel momento più difficile. Erano stati davvero incapaci di accompagnarlo nel momento più tragico. Le nostre paure, i nostri errori, la nostra confusione ci bloccano a volte? Le ferite passate ci paralizzano, e generano di continuo solo tristezza e chiusura, pessimismo e diffidenza?
- Credere a uno piagato: Gesù appare, non nasconde le piaghe, ma mostrandole li invita a tenerle presenti, come esperienza reale, non eliminabile. E le mostra ancora a Tommaso una settimana dopo (cf. Gv 20,27). Questa insistenza indica che la nostra fede si fonda sulle piaghe. È risorto colui che è stato ucciso, le sue piaghe sono lì.
- Segni concreti: Tommaso non si lascia illudere, egli ha senso concreto, è realista lui. Alla caparbietà ora si sostituisce una splendida affermazione di fede: spontanea, ma anche di grande effetto. Abbiamo sempre dei sospetti, vediamo emozioni, illusioni, fantasmi, poco senso realistico?
- Leggere nei «segni»: Giovanni ha raccolto dei «segni», non per scrivere una bella storia, ma per provocare l’attenzione, l’adesione, far arrivare alla professione di fede in Gesù Messia e Figlio di Dio. Essi sono come delle tappe, dei pilastri che segnano il cammino e lo sostengono. È il vangelo del teologo e del mistico, che aiuta a fare un percorso di fede. La nostra fede ha il senso di un percorso?
«Una crisi di fede è sempre un invito a lasciar andare le vecchie rappresentazioni e a congedarci dalle immagini abituali di Dio» (Anselm Grüm).
La crisi fa perdere stabilità, essa è presente nella vita umana del singolo e in quella di popoli interi. Attraverso di essa avvengono cambiamenti a volte radicali, perché la natura della crisi muta la percezione della realtà.
I media parlano di crisi economica e finanziaria, la maggior parte delle interviste a sociologi e antropologi vertono su questo argomento. Non c’è però molta chiarezza sulle strategie di soluzione, il più delle volte c’è molta paura di gestire la crisi. I quotidiani prospettano soluzioni opposte a seconda del loro orientamento, per qualche opinionista siamo sull’orlo del baratro. C’è chi pensa di affrontare le difficoltà seguendo il detto «tengo famiglia»: allora la soluzione e assolutamente familista!
Uno dei significati della parola crisi è anche «scelta». Nei momenti in cui i punti di riferimento vacillano si può prendere una decisione: sembra un paradosso, ma è così.
La crisi è un’opportunità, ma non sempre! Non tutti ce la fanno, a maturare o sopravvivere. Tommaso però ce la fa, alla fine le sue parole sono essenziali, ma chiare: «Mio Dio!». Eccolo, Tommaso, circondato dagli amici che espongono le prove per convincerlo, stupito e rapito ormai per sempre dal suo Signore.
Non ha mai rimosso la crisi, l’ha comunicata: ce l’ha fatta, il suo sguardo ora è altrove. Il buio ha la sua forza, Tommaso non si mette in fuga, né rimuove il suo dubbio. Rimane e, forse con rozza semplicità, fa capire agli altri che ha smesso di credere al Maestro.
Ad Elsa è successo il contrario, il movimento ecclesiale di cui fa parte non perdona i suoi errori, né il suo stile di vita. Loro sono intransigenti, senza sconti.
Tommaso otto giorni dopo è ancora seduto con gli altri, lei no, le hanno detto che il crocifisso che porta la collo è macchiato dei suoi peccati. Così se n’è andata!
La crisi di Tommaso ci parla della crisi di ogni uomo di tutti i tempi, dell’attenzione dovuta a chi non c’era quando «i segni» sono stati un aiuto.
La comunicazione della fede deve rimanere discreta, senza alterare i colori del mistero, né quelli del dolore. Ce lo suggerisce Gesù che si mostra piagato. La crisi di Tommaso viene guarita dalla pazienza. Non serve alterare la storia, edulcorare il supplizio vissuto: le sue mani e i suoi piedi portano le ferite dell’ingiusta condanna.
Riesce più semplice anestetizzare la crisi che abitarla, ma la fede non è un calmante: «È del tutto da escludere che chi crede abbia riguardo al bene e al male idee chiare […]. Come chi non crede, egli trova estremamente difficile separare il bene dal male, e li vede serpeggiare e inseguirsi, in una trama così sottile, complicata e confusa, che a fissarla vengono le vertigini» (N. Ginzburg, Mai devi domandarmi, Einaudi, Torino 2022, p. 190).
C’è chi conduce la vita in fuga dalla paura e dalle domande, chi preferirebbe morire, come il profeta Elia sotto un ginepro (1Re 19,4). C’è chi trova con fatica il coraggio della chiarezza, non si esce dalla crisi tutti allo stesso modo.
È più prudente accompagnare con tenerezza che proporre soluzioni rapide dove manca chiarezza. Le spiegazioni dove manca la riflessione e il confronto non educano, ma favoriscono la banalizzazione superficiale! È meglio sostare con chi è travolto dal buio e provare a invocare la pace (shalom). La crisi aiuta a comprendere che la via corrente è correre, marciare, ma anche passeggiare e talvolta vagare.
… Per l’infinita sofferenza.
Sii la misura, sii il mistero.
Purificante amore,
fa’ ancora che sia la scala di riscatto
la carne ingannatrice.
Vorrei di nuovo udirti dire
che in te finalmente annullate
le anime si uniranno
e lassù formeranno, eterna umanità,
il tuo sonno felice.
(Giuseppe Ungaretti)