Vogliamo accompagnare questo tempo pasquale con alcune letture che ci aiutino ad approfondirne il mistero. Iniziamo con un testo di Joseph Ratzinger/Benedetto XVI, tratto da una delle sue ultime opere: Gesù di Nazareth. Il brano è preso dal capitolo 9 del secondo volume che ha come titolo “Di che si tratta nella risurrezione di Gesù”. Il testo è più lungo del solito e forse un po’ impegnativo, ma non impossibile. Esso presenta l’assoluta novità dell’evento della risurrezione di Gesù:
«Nella nostra ricerca sulla figura di Gesù, la risurrezione è il punto decisivo. Se Gesù sia soltanto esistito nel passato o invece esista anche nel presente – ciò dipende dalla risurrezione. Nel «sì» o «no» a questo interrogativo non ci si pronuncia su di un singolo avvenimento accanto ad altri, ma sulla figura di Gesù come tale».
«Ma se Cristo non è risorto, vuota è allora la nostra predicazione, vuota anche la vostra fede. Noi, poi, risultiamo falsi testimoni di Dio, perché contro Dio abbiamo testimoniato che egli ha risuscitato il Cristo» (1 Cor, 15,14s). Con queste parole san Paolo pone drasticamente in risalto quale importanza abbia per il messaggio cristiano nel suo insieme la fede nella risurrezione di Gesù Cristo: ne è il fondamento. La fede cristiana sta o cade con la verità della testimonianza secondo cui Cristo è risorto dai morti.
Se si toglie questo, si può, certo, raccogliere dalla tradizione cristiana ancora una serie di idee degne di nota su Dio e sull’uomo, sull’essere dell’uomo e sul suo dover essere – una sorta di concezione religiosa del mondo –, ma la fede cristiana è morta. Gesù in tal caso è una personalità religiosa fallita; una personalità che nonostante il suo fallimento rimane grande e può imporsi alla nostra riflessione, ma rimane in una dimensione puramente umana e la sua autorità è valida nella misura in cui il suo messaggio ci convince. Egli non è più il criterio di misura; criterio è allora soltanto la nostra valutazione personale che sceglie dal suo patrimonio ciò che sembra utile. E questo significa che siamo abbandonati a noi stessi. La nostra valutazione personale è l’ultima istanza.
Solo se Gesù è risorto, è avvenuto qualcosa di veramente nuovo che cambia il mondo e la situazione dell’uomo. Allora Egli, Gesù, diventa il criterio, del quale ci possiamo fidare. Poiché allora Dio si è veramente manifestato.
Per questo, nella nostra ricerca sulla figura di Gesù, la risurrezione è il punto decisivo. Se Gesù sia soltanto esistito nel passato o invece esista anche nel presente – ciò dipende dalla risurrezione. Nel «sì» o «no» a questo interrogativo non ci si pronuncia su di un singolo avvenimento accanto ad altri, ma sulla figura di Gesù come tale.
È perciò necessario ascoltare con particolare attenzione la testimonianza sulla risurrezione offerta nel Nuovo Testamento. Ma dobbiamo allora, come prima cosa, constatare che questa testimonianza, considerata Dal punto di vista storico , si presenta a noi in una forma particolarmente complessa , così da sollevare molte domande.
Che cosa è lì successo? Ciò chiaramente, per i testimoni che avevano incontrato il Risorto, non era facile da esprimere. Si erano trovati davanti un fenomeno per essi stessi totalmente nuovo, poiché oltrepassava l’orizzonte delle loro esperienze. Per quanto la realtà dell’accaduto li sconvolgesse fortemente e li spingesse a darne testimonianza – essa tuttavia era totalmente inusuale. San Marco ci racconta che i discepoli,scendendo dal monte della trasfigurazione, riflettevano preoccupati sulla parola di Gesù secondo cui il Figlio dell’uomo sarebbe «risorto dai morti». E si domandavano l’un l’altro che cosa volesse dire «risorgere dai morti» (9,9s). E di fatto; in che cosa ciò consiste? I discepoli non lo sapevano e dovevano impararlo solo dall’incontro con la realtà.
Chi si avvicina ai racconti della risurrezione con l’idea di sapere cosa sia la risurrezione dai morti, non può che interpretare tali racconti in modo sbagliato e deve poi accantonarli come cosa insensata. Alla fede nella risurrezione Rudolf Bultmann ha obiettato che, anche se Gesù fosse tornato dal sepolcro, si dovrebbe tuttavia dire che «un tale miracoloso evento della natura come la rianimazione di un morto» non ci aiuterebbe per nulla e, dal punto di vista esistenziale, sarebbe irrilevante (cfr Neues Testament und Mythologie, p. 19).
Ebbene, di fatto: se nella risurrezione di Gesù si fosse trattato soltanto del miracolo di un cadavere rianimato, essa ultimamente non ci interesserebbe affatto. Non sarebbe infatti più importante della rianimazione, grazie all’abilità dei medici, di persone clinicamente morte. Per il mondo come tale e per la nostra esistenza non sarebbe cambiato nulla. Il miracolo di un cadavere rianimato significherebbe che la risurrezione di Gesù era la stessa cosa che la risurrezione del giovane di Nain (cfr Lc 7,11-17), della figlia di Giàiro (cfr Mc 5,22-24.35-43 e par.) o di Lazzaro (cfr Gv 11,1-44). Di fatto, dopo un tempo più o meno breve, questi ritornarono nella loro vita di prima per poi più tardi, a un certo punto, morire definitivamente.
Le testimonianze neotestamentarie non lasciano alcun dubbio che nella «risurrezione del Figlio dell’uomo» sia avvenuto qualcosa di totalmente diverso. La risurrezione di Gesù è stata l’evasione verso un genere di vita totalmente nuovo, verso una vita non più soggetta alla legge del morire e del divenire, ma posta al di là di ciò – una vita che ha inaugurato una nuova dimensione dell’essere uomini. Per questo la risurrezione di Gesù non è un avvenimento singolare, che noi potremmo trascurare e che apparterrebbe soltanto al passato, ma è storia di una «mutazione decisiva» (per usare analogicamente questa parola, pur equivoca), un salto di qualità. Nella risurrezione di Gesù è stata raggiunta una nuova possibilità di essere uomo, una possibilità che interessa tutti e apre un futuro, un nuovo genere di futuro per gli uomini.
Con ragione, quindi, Paolo ha inscindibilmente connesso la risurrezione dei cristiani e la risurrezione di Gesù: «Se infatti i morti non risorgono, neanche Cristo è risorto… Ora, invece, Cristo è risorto dai morti, primizia di coloro che sono morti» (1 Cor 15,16.20) La risurrezione di Cristo o è un avvenimento universale o non è, ci dice Paolo. E solo se la intendiamo come avvenimento universale, come inaugurazione di una nuova dimensione dell’esistenza umana, siamo sulla strada di una giusta interpretazione della testimonianza sulla risurrezione presente nel Nuovo Testamento.
Da qui si capisce la peculiarità di tale testimonianza neotestamentaria. Gesù non è tornato in una normale vita umana di questo mondo, come era successo a Lazzaro e agli altri morti risuscitati da Gesù. Egli è uscito verso una vita diversa, nuova – verso la vastità di Dio e, partendo da lì, Egli si manifesta ai suoi.
Ciò era anche per i discepoli una cosa del tutto inaspettata, di fronte alla quale ebbero bisogno di tempo per orientarsi. È vero che la fede giudaica conosceva la risurrezione dei morti alla fine dei tempi. La nuova vita era collegata con l’inizio di un mondo nuovo e in tale prospettiva era anche ben comprensibile: se c’è un mondo nuovo, allora lì esiste anche un modo nuovo di vita. Ma una risurrezione verso una condizione definitiva e differente, nel bel mezzo del mondo vecchio che continua ad esistere – questo non era previsto e pertanto inizialmente neanche comprensibile. Per questo la promessa della risurrezione era in un primo tempo rimasta inafferrabile per i discepoli.
Il processo del divenire credenti si sviluppa in modo analogo a quanto è avvenuto nei confronti della croce. Nessuno aveva pensato ad un Messia crocifisso. Ora il «fatto» era lì, e in base a tale fatto occorreva leggere la Scrittura in modo nuovo.
Nel capitolo precedente abbiamo visto come partendo dall’inattesa la Scrittura si sia dischiusa in modo nuovo e così anche il fatto abbia acquistato un suo senso. La nuova lettura della Scrittura, ovviamente, poteva cominciare soltanto dopo la risurrezione, perché soltanto in virtù di essa Gesù era stato accreditato come inviato di Dio. Ora si dovevano individuare ambedue gli eventi – croce e risurrezione – nella Scrittura, comprenderli in modo nuovo e così giungere alla fede in Gesù come Figlio di Dio.
Questo, peraltro, presuppone che per i discepoli la risurrezione fosse reale come la croce. Presuppone che essi fossero semplicemente sopraffatti dalla realtà; che dopo tutta la titubanza e la meraviglia iniziali non potessero più opporsi alla realtà: è veramente Lui; Egli vive e ci ha parlato, ci ha concesso di toccarlo, anche se non appartiene più al mondo di ciò che normalmente è toccabile.
Il paradosso era indescrivibile: che Egli fosse del tutto diverso, non un cadavere rianimato, ma uno che in virtù di Dio viveva in modo nuovo e per sempre; e che al tempo stesso, in quanto tale, pur non appartenendo più al nostro mondo, fosse presente in modo reale proprio Lui, nella sua piena identità. Si trattava di un’esperienza assolutamente unica, che andava al di là degli usuali orizzonti dell’esperienza e, tuttavia, restava per i discepoli del tutto incontestabile. A partire da ciò si spiega la peculiarità delle testimonianze sulla risurrezione: parlano di una cosa paradossale, di qualcosa che supera ogni esperienza e che tuttavia è presente in modo assolutamente reale.
Ma può veramente essere stato così? Possiamo noi – soprattutto in quanto persone moderne – dar credito a testimonianze del genere? Il pensiero «illuminato» dice di no. A Gerard Lüdemann, per esempio, appare evidente, che in seguito al «cambio dell’immagine scientifica del mondo… le idee tradizionali sulla risurrezione di Gesù» siano «da ritenere superate» (citato secondo Wilckens I/2 pp.119s). Ma ora, che significa precisamente «l’immagine scientifica del mondo»? Fin dove giunge la sua normatività? Hartmut Gese, nel suo importante contributo Die Frage des Weltbildes a cui vorrei qui rimandare, ha descritto accuratamente i limiti di tale normatività.
Naturalmente, non può esserci alcun contrasto con ciò che costituisce un chiaro dato scientifico. Nelle testimonianza sulla risurrezione, certo, si parla di qualcosa che non rientra nel mondo della nostra esperienza. Si parla di qualcosa di nuovo, di qualcosa fino a quel momento unico – si parla di una nuova dimensione della realtà che si manifesta. Non si contesta la realtà esistente. Ci viene detto piuttosto: esiste un’ulteriore dimensione rispetto a quella che finora conosciamo. Ciò sta forse in contrasto con la scienza? Può veramente esserci solo ciò che è esistito da sempre? Non può esserci la cosa inaspettata, inimmaginabile, la cosa nuova? Se Dio esiste, non può Egli creare anche una dimensione nuova della realtà umana? Della realtà in generale? Non è, in fondo, la creazione in attesa di questa ultima e più alta «mutazione», di questo definitivo salto di qualità? Non attende forse l’unificazione del finito con l’infinito, l’unificazione tra l’uomo e Dio, il superamento della morte?
Nell’intera storia di ciò che vive, gli inizi delle novità sono piccoli, quasi invisibili – possono essere ignorati. Il Signore stesso ha detto che il «regno dei cieli», in questo mondo, è come un granello di senape, il più piccolo di tutti i semi (cfr Mt 13,31s e par.). Ma reca i sé le potenzialità infinite di Dio. La risurrezione di Gesù, dal punto di vista della storia del mondo, è poco appariscente, è il seme più piccolo della storia.
Questo capovolgimento delle proporzioni fa parte dei misteri di Dio. In fin dei conti, ciò che è grande, potente, è la cosa piccola. E il seme piccolo è la cosa veramente grande. Così la risurrezione è entrata nel mondo soltanto attraverso alcune apparizioni misteriose agli eletti. E tuttavia essa era l’inizio veramente nuovo – ciò di cui, in segreto, il tutto era in attesa. E per pochi testimoni – proprio perché essi stessi non riuscivano a capacitarsene – era un avvenimento così sconvolgente e reale, così potente nel manifestarsi davanti a loro che ogni dubbio si dissolveva ed essi, con un coraggio assolutamente nuovo, si presentarono davanti al mondo per testimoniare: Cristo è veramente risorto.